Basta avere un pizzico di onestà intellettuale per capire che dietro la manfrina dell’emigrazione, Salvini ha giocato una partita mortale per il Sud Italia.

Oggi i cittadini italiani apprendono che aumm aumm, il Governo Italiano si accinge a partorire l’autonomia regionale differenziata, ormai nota come la secessione dei ricchi.  Non so se si rendono conto effettivamente di quello cui stanno andando incontro. Non dovrebbe essere difficile cogliere gli aspetti drammatico  e ironico di questa situazione.
L’aspetto drammatico: L’Italia viene disgregata in 25 piccole repubbliche, ciascuna con una sua sanità, una sua scuola, le sue infrastrutture, la sua formazione, la sua polizia locale, ecc..
L’aspetto ironico: il “prima gli italiani” diventa “prima il Nord” e poi gli altri.

La riforma costituzionale Renzi-Boschi, per chi avesse la memoria corta e avesse dimenticato,  si prefiggeva «il superamento del senato, la riduzione del numero dei parlamentari, il contenimento dei costi di funzionamento delle istituzioni, la soppressione del CNEL e la revisione del titolo V della parte II della Costituzione». In particolare, in nota[1]c’è tutta la storia, con la revisione del Titolo V della Costituzione si mirava:

  • a rafforzare il ruolo dello Stato rispetto alle Regioni,
  • a omogeneizzare gli interventi su tutto il territorio italiano soprattutto in tema di sanità e scuola,
  • a ridurre il rischio di secessione delle regioni ricche rispetto a quelle povere.

Ecco cosa ne scrive oggi Michele Ainis, noto giurista e costituzionalista italiano, componente dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato.

Autonomia delle Regioni, fiera degli egoismi
di Michele Ainis
Fin qui c’è stato uno Stato, domani chi lo sa. È questo il rischio cui ci espone l’autonomia differenziata: un processo di disgregazione, una faida fra territori armati gli uni contro gli altri, e in ultimo la rinunzia alla nostra comune identità. Oltretutto per colpa della Costituzione, la carta che in teoria dovrebbe unirci. O meglio, per effetto d’una norma aggiunta nel 2001 al documento vergato dai costituenti: l’articolo 116, che permette il tira e molla delle competenze fra lo Stato e le Regioni. Ma dopotutto la responsabilità non è del testo, bensì piuttosto del contesto. Dipende dalle sue cattive applicazioni, che a loro volta dipendono dagli umori instabili e sbilenchi della politica italiana.

 


[1] Il provvedimento proponeva in particolare una radicale riforma del Senato della Repubblica, la cui principale funzione sarebbe diventata quella di rappresentanza delle istituzioni territoriali, concorrendo paritariamente con l’altra camera all’attività legislativa solo in determinati casi.[4] Il numero dei senatori sarebbe stato ridotto da 315 a 100 membri, i quali – eccetto cinque nominati dal Presidente della Repubblica – sarebbero stati eletti dai Consigli regionali fra i loro stessi componenti e fra i sindaci dei propri territori. La Camera dei deputati sarebbe rimasta quindi l’unico organo ad esercitare la funzione di indirizzo politico e di controllo sull’operato del Governo, verso il quale sarebbe rimasta titolare del rapporto di fiducia. Venivano anche introdotte alcune modifiche nel meccanismo di elezione del Presidente della Repubblica e di nomina dei giudici della Corte costituzionale. La riforma contemplava inoltre la rimozione dalla Carta dei riferimenti alle province, l’abolizione del Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro (CNEL) e la soppressione dell’elenco delle materie di legislazione concorrente fra Stato e Regioni; erano previste anche modifiche in tema di referendum popolari, procedimento legislativo e uso della decretazione d’urgenza.

La proposta di riforma, aspramente avversata dalle opposizioni parlamentari e da alcuni giuristi, è stata approvata con una maggioranza inferiore ai due terzi dei membri di ciascuna camera: di conseguenza, come prescritto dall’articolo 138 della Costituzione, il provvedimento non è stato promulgato direttamente, essendo prevista la facoltà di richiedere un referendum per sottoporlo al giudizio degli elettori. La consultazione popolare, richiesta sia su iniziativa parlamentare sia attraverso una raccolta di firme, ha avuto luogo il 4 dicembre 2016;[5] non è stato necessario il raggiungimento di un quorum.[6] La consultazione referendaria ha visto un’alta affluenza alle urne, pari al 65,47% degli elettori, e una netta affermazione dei voti contrari, pari al 59,12% dei voti validi. La riforma non è quindi entrata in vigore.