Il virus Covid-19 è stato vissuto in Italia e nel mondo come una dichiarazione di guerra all’umanità. E la paura ha invaso città, paesi e anche borghi isolati della nostra Penisola. E ci siamo chiusi o in casa. Il Governo non ha dovuto faticare molto. O a casa o si muore. Tutti a casa, ovvio, con le porte serrate, sfogando i timori cantando dai balconi, poi velocemente richiusi perché il virus viaggerebbe anche nell’aria o portato da mosche e zanzare. Un isolato sportivo in corsa lungo le rive del mare o di un fiume o dentro fitti boschi è stato rincorso da elicotteri e fuoripista come fosse un virus a grandezza umana, redarguito, multato e malmenato dai social.
Alla paura, da guerra mondiale, è subentrata la paura di non potercela fare a sfamare la famiglia, a non poter proteggere i propri anziani, a non poter respirare aria di libertà. Una paura sottile che non richiama più il senso di sicurezza a starsene isolati e rinchiusi; l’opposto: richiama il senso del dovere verso i propri cari per assicurare i fabbisogni necessari, il senso di responsabilità verso sé stessi per una vita da vivere e non sopportare nel chiuso di una stanza. Da qui, la voglia irrefrenabile di riprendere a vivere.
Facile è il passaggio verso la rabbia al momento che si riscontrano la difficoltà di riprendere un lavoro, la difficoltà di mettere insieme pranzo e cena, la difficoltà di potersi muovere in totale libertà, la difficoltà di comprendere le articolate e confuse disposizioni delle autorità, in primis il Governo, preposte ad assicurare che questa rabbia non si trasformi, come da molti temuto, in scontri sociali prima che politici.