Lo abbiamo sentito tutti, il nostro presidente del consiglio, Conte, dire che noi italiani proviamo: «stanchezza, rabbia, ansia, frustrazione, sofferenza».
Per forza di cose siamo stanchi. Chi non lo sarebbe. Ci era stato detto: fate i bravi, ne usciremo, andrà tutto bene. Salvo alcuni virologi (questi scienziati che tutto hanno capito salvo il fatto che dietro questa pandemia non c’è niente di scientifico ma tutto da capire tanto che molto facilmente si accapigliano tra loro), nessuno, al Governo, si era premurato di creare le condizioni psicologiche perché fossimo pronti ad accogliere la seconda ondata con la stessa forza con cui abbiamo affrontato la prima.
Per forza di cose c’è rabbia. Questa è ben presente specialmente nella parte della popolazione non garantita. Quella del pubblico impiego e i pensionati e da reddito di cittadinanza possono ben cavarsela. Non altrettanto può essere per coloro che vivono di mercato e per il mercato come quelli della partita Iva e quelli, tantissimi, disoccupati o precari o schiavi del mercato nero.
Per forza di cose c’è ansia. Come si fa a non essere ansiosi, osservando tutto quello che non funziona, con la sensazione netta di essere allo sbando o, in termini più semplici, di essere in mano a nessuno. Erano stati promessi “tracciatori”, non se ne sono visti; era stato promesso un buon funzionamento dell’applicazione “immuni”; sembrava che tutto dipendesse da noi; occorreva, dicevano, che almeno il 60% della popolazione avrebbe dovuto scaricarla perché funzionasse; abbiamo scoperto che non funziona, a prescindere da tutto. Avevano detto che ogni regione sarebbe stata dotata di letti aggiuntivi di terapia intensiva; assistiamo alla incredibile scena di ospedali da campo, come fossimo in Afghanistan. Avevano detto che con l’arrivo del vaccino saremmo stati all’inizio della fine della pandemia; stiamo leggendo che i vaccini stanno per arrivare per fine anno ma il Commissario Unico al Covid, Arcuri, non avrebbe provveduto all’approvvigionamento delle speciali siringhe che occorrono per iniettarlo. E la lista potrebbe essere ancora lunga. In conclusione, gli italiani hanno capito che non si è fatto abbastanza per «gestire» questa seconda ondata.
Per forza c’è sofferenza. C’è la sofferenza di chi vorrebbe dare un ultimo saluto a un suo caro ma non può farlo e si distrugge all’idea di saperlo solo nel momento del trapasso. C’è la sofferenza di chi sa di essere ammalato ma non trova un medico, un assistente sanitario che lo stia a sentire per consentirgli un tampone. C’è la sofferenza di chi, per fare un tampone, deve percorrere centinaia di km mettendo a rischio la sua incolumità e quella di chi deve accompagnarlo. C’è sofferenza in chi è in auto, di notte, davanti all’ospedale con un familiare in crisi respiratoria che muore in attesa di un letto (è successo ad Avezzano).
Per forza di cose c’è frustrazione. Il Governo aveva dato disposizione, a tutti coloro che operano nelle attività commerciali, di investire in sicurezza sanitaria, per poter continuare ad esercitare la loro professione. Nonostante che tutti abbiano provveduto con costi anche consistenti, per mettere a norma ogni aspetto della loro attività, tutti, comunque, sono stati costretti a chiudere o a limitare le loro azioni. E la frustrazione cresce perché nessuno sa se le misure adottate siano servite a qualcosa. E la frustrazione aumenta nel dover aggiornare, a scadenza settimanale, i propri comportamenti a seconda che la sua zona sia gialla, arancione, rossa, verde o blu. E la frustrazione rasenta la depressione a leggere della disputa tra Stato e Regioni su chi deve fare cosa, che qualcuno con il referendum del 2016 voleva meglio definire e qualche altro, che oggi siede bellamente al Governo, volle lasciare così com’è, ovvero ingestibile.