Da un apparato statale con un DNA propenso alla repressione, coltivata per secoli, non si può pretendere un improvviso ravvedimento democratico. Da apparati universitari che, come quelli di Cambridge, predicano democrazia e cercano di propagandarla in tutto il mondo non si può pretendere che se ne stiano tranquilli e sereni di fronte alla violazione dei diritti civili ma si deve pretendere che siano loro a rischiare in prima persona e non nascondersi dietro paraventi e farfanterie, mandando giovani ricercatori incontro alla morte. Perché questo è successo e sta emergendo mentre la nostra magistratura chiede di processare 5 operatori della polizia segreta egiziana: a spingerlo verso l’orrore sono state la sua professoressa di Cambridge, Maha Abdelrahman, che ha taciuto sui rischi cui il giovane ricercatore stava andando incontro e le persone (gli “amici” del Cairo), pur sempre legate a Cambridge, che avrebbero dovuto proteggerlo mentre, in effetti, lo hanno venduto alla National security, il servizio segreto egiziano. 
La Professoressa era ben consapevole del fatto che Regeni era morto a causa del lavoro commissionatogli, come dimostra una sua email inviata il 7 febbraio del 2016 a una sua collega nella quale dice: “Ho mandato un giovane ricercatore verso la sua morte…”…. “Indicare alle persone come fare ricerca è qualcosa che penso, ma sento di non dover più fare”. Peraltro, questa professoressa ha intralciato le indagini e fino all’ultimo ha nascosto le vere intenzioni della missione di Regeni in Egitto.
Bene faremmo, pertanto, a non dimenticare questo aspetto e, conseguentemente, chiamare sul banco degli imputati, colpevoli della morte di Regeni, oltre ai 5 poliziotti egiziani, soprattutto l’Università di Cambridge che ha spinto il nostro giovane ricercatore verso la morte.