Nell’apprendere di un malore di Giuseppe Conte, ho avuto un moto di solidarietà per l’uomo, per il professionista apprezzato che tanti conoscevano. Purtroppo, avrebbe dovuto sapere, fin dall’inizio, che movimenti nati solo sull’onda della protesta (la stessa che sta cavalcando la Meloni), nell’utopica illusione che basti urlare “onestà, onestà”, perché si possa governare una paese difficile e complicato comm’è l’Italia. Qualsiasi movimento che non abbia una sua identità precisa forte – come possono essere il liberalismo, il socialismo, il riformismo ecc… – è destinanto a infrangersi contro la realtà nuda e cruda fatta di pandemie, guerre, costi, materie prime, energetiche in testa. Se a questo, si aggiunge il livello di benessere medio che il popolo italiano ha raggiunto con tutte le sue liberalità e cui nessuno vuole rinunciare, governare è compito di chi ha capacità politiche e competenze di governo accompagnate da nervi saldi e sangue freddo.

E, ancora purtroppo, il moderato Giuseppe avrebbe dovuto sapere che non gli si attaglia il ruolo che è andato a riagliarsi salendo sulle barricate: da unica possibile guida di un governo del cambiamento, da fulgido federatore del campo progressista sta diventando il leader dei tavernicoli. Intesi come la comitiva di Paola Taverna. E, così, oggi si trova in mezzo a bende scatenatesi fino all’autodistruzione. E se il partito va all’opposizione l’originale (Di Battista) funziona meglio della fotocopia (Conte). “A che serve un Giuseppe che si radicalizza, che lascia il governo?”, si chiedono, non a torto, tanti che se ne intendono. Se fosse un politico, oggi farebbe del tutto per invertire la tendenza autodistruttiva, dando la fiducia a Draghi. In caso contrario farebbe meglio, per la sua salute, abbandonare il campo.