Qualche giorno fa ho scritto di giovani e vecchi, evidenziando come nel tempo cambino i costumi, e cambino, di volta in volta, i riferimenti assunti come punti cardinali da cui non poter prescindere. Un tempo potevano essere Apollo oppure Osiride; oggi può essere un qualsiasi guru che impazza attraverso internet sullo smartphone.
Quello che non cambia è il nostro modo di percepire il passato: sempre nostalgicamente migliore del presente o del futuro, nonostante, riflettendo bene, quel passato fosse pieno di sofferenze, tormenti, travagli, tribolazioni.
È sempre stato così, a cominciare dai Sumeri che cinquemila anni fa criticavano la degenerazione dei costumi sulle loro tavolette d’argilla. Lo dicevano anche i nonni di Platone: «Ai miei tempi sì che c’erano dei valori, mica come questi smidollati che parlano di filosofia e girano col tribonio alla spartana».
Succede così che, nella mente dei popoli, ogni generazione è, ciclicamente, più corrotta e più fiacca di quella precedente, e non si capisce come abbiamo fatto, nel frattempo, a debellare il vaiolo o a comunicare senza problemi tra l’Alaska e l’Australia, tra Stoccolma e Nairobi, oppure a volare da Parigi a New York in poco più di 4-5 ore oppure a vivere, di generazione in generazione, sempre più a lungo.
Evidentemente abbiamo nostalgia del passato, per scampare allo smarrimento del presente e ingannare un futuro che temiamo.
Nella foto: Dipinto di Salvador Dalì